Una serie di cartoline postali edite con immagini di Opere della Galleria Pietro Bazzanti e Figlio e della Fonderia Artistica Ferdinando Marinelli relative alla Carretta dei Pionieri, lo Scalone Monumentale in Vaticano, La Porta Santa della Basilica di San Pietro, Il Porcellino di Firenze, statue e fontane per i Casinò della Las Vegas Strip, la Fontana dei Broncos, oltre a una panoramica della Galleria e del Lungarno Corsini dal ‘800 fino ai tempi recenti.

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La Galleria Bazzanti e il Lungarno Corsini nella cartoline postali d’epoca:

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1875 – La Galleria Bazzanti apre sul Lungarno quattro vetrine. Le prime tre tende sono unite, si intravede lateralmente la scritta col nome.

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1890 –  Le tende hanno dipinto in grande il nome Pietro Bazzanti & F.

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1903 – Un drappello di militari passa davanti alla Galleria.

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Primissimi ‘900 – Le tende bianche sono state semplificate.

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Primissimi ‘900 – All’estrema sinistra appaiono le tende della Galleria.

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S.D. – La Galleria è l’ unica tenda del Lungarno Corsini.

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1928 – Ora le quattro tende sono separate l’una dall’altra.

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S.D. – Le vetrine della Galleria sono ben visibili, con alcune sculture di marmo. Il timbro in violetto è coevo.

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Le cartoline postali sono tratte da fotografie eseguite poco dopo il montaggio del monumento di Josè Belloni a Montevideo (Uruguay) del 1930, fuso dalla Fonderia Artistica Ferdinando Marinelli di Firenze.

Vedi anche

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Le cartoline postali hanno l’immagine dello scalone monumentale fuso e montato nel 1932 dalla Fonderia Artistica Ferdinando Marinelli di Firenze all’ingresso del Museo Vaticano, poco prima dell’inaugurazione.

Vedi anche

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La cartolina postale è stata stampata per la Porta Santa della Cattedrale di San Pietro in Vaticano fusa in bronzo dalla Fonderia Artistica Ferdinando Marinelli di Firenze nel 1950. Ha sostituito la precedente in legno. Viene aperta dal Papa solo in occasione dei Giubilei.

Vedi anche 

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Replica della celebre fontana fiorentina del Porcellino del Tacca che la Galleria Bazzanti ha inviato nella città di Victoria, Canada, per ornare il Butchart Garden, di cui ne hanno fatto una cartolina.

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Cartoline del Caesar Palace Hotel di Las Vegas a cui la Galleria Bazzanti ha fornito gran parte delle statue di marmo di Carrara degli arredi esterni ed interni.

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Sette cavalli Broncos, simbolo della squadra, galoppanti verso l’ingresso dello stadio Invesco Field di Denver, USA. Opera creata da Sergio Benvenuti e realizzata dalla Fonderia Artistica Ferdinando Marinelli di Firenze per la Bowlen Holdings nel 2001.

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I Butchart Gardens sono un gruppo di giardini  floreali situati a Brentwood Bay, Columbia Britannica, Canada. Ricevono ogni anno circa un milione di visitatori e sono stati designati come Sito Storico Nazionale del Canada.

Vi sono molte opere in bronzo realizzate dalla Fonderia Artistica Ferdinando Marinelli.

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Butchart Gardens – 1967

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Anni ’60

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1969


Le antiche porte di bronzo in Italia

Parte 2

La Porta del Tempio di Romolo al Foro Romano chiudeva il monumento rotondo preesistente che l’ imperatore Massenzio nel 309 d.C. trasformò nel tempio del figlio Valerio Romolo, ed è coeva (Foto 1,2). E’ costituita da due battenti completamente fusi in bronzo alti 4,92 metri e larghi 3,16 metri, ed era decorata da borchie di bronzo, andate perse. (Foto 3,4)

I montanti del telaio sono costituiti da due lastre di bronzo intere (esterna ed interna) unite con tasselli a coda di rondine; i pannelli centrali sono lastre uniche piene spesse 5 mm.

1-Foro Romano,Tempio del Divo Romolo 2-Foro Romano,Tempio del Divo Romolo
3-Porta del Tempio del Divo Romolo 4-Porta del Tempio del Divo Romolo

La porta proveniva dalla Cura Iulia, antica sede del Senato Romano, edificata da Ottaviano nel 29 a.C. che nel 630 il papa Onorio trasformò in chiesa col nome di Sant’ Adriano al Foro; venne fatta trasportare dal papa Alessandro VII Chigi e riadattare dal Borromini per sistemarla all’ ingresso della Basilica di S. Giovanni in Laterano (Foto 5).

Esistono vari disegni della porta quando ancora era nella chiesa di Sant’ Adriano al Foro: di Giuiano da Sangallo di fine ‘400, di Antonio Labacco del 1528, di Etienne Duperac del 1575, di Aloisio Giovannoli del 1615 (Foto 6,7,8,9,10).

5-Basilica di S. Giovanni in Laterano, facciata

6-Giuliano da Sangallo, disegno della porta bronzea di S. Adriano al Foro, fine ‘400, Bib. Apostolica Vaticana 7-Francesco Borromini, disegno della porta di S. Adriano al Foro 8-Antonio Labacco, disegno della porta bronzea di S. Adriano al Foro, 1528

9-Etienne Duperac, S. Adriano al Foro, 1575.

10-Aloisio Giovannoli, S. Adriano al Foro, 1615

Dal Diario del papa Alessandro VII sappiamo che “dì 27 di maggio 1656 furono levate le porte per la nuova fabbrica” e, continua il papa “la porta che fu di S. Adriano si dia al P. e Virgilio Spada [intermediario tra il papa e il Borromini] che la faccia aggiustar al Cav. e Borromino con più bronzo o almeno rame”. La porta quindi ha subìto dal Borromini vari aggiustamenti di misura e di decorazione rispetto all’originale romano, e per il rimontaggio con misure diverse è stato creata un’anima di legno a cui le lamiere sono state attaccate (Foto 11,12,13).

11-S. Giovanni in Laterano, porta romana bronzea modificata dal Borromini 12-S. Giovanni in Laterano, porta romana bronzea modificata dal Borromini 13-S. Giovanni in Laterano, porta romana bronzea modificata dal Borromini, dettaglio

Altra porta bronzea di origine romana antica riusata nella Basilica di S. Giovanni in Laterano è quella, di cui si hanno poche notizie, dell’ oratorio della Cappella detta Sancta Sanctorum (Foto 14): Onofrio Panvino nel “De praecipuis urbis Romae sanctioribusque basiicis, quas Septem ecclesias vulgo vocant” del 1570, ci dice che l’ Oratorio dedicato a S. Lorenzo presentava valve in bronzo di mirabile fattura, e ce lo dice alcuni anni prima della sistemazione attuata tra il 1586 e il 1589 al complesso lateranense dal papa Sisto V; tale risistemazione non alterò la fisionomia dell’oratorio e quindi possiamo dire che la porta è rimasta com’era in antico.

14-S. Giovanni in Laterano, Cappella di San Lorenzo detta Sancta Sanctorum

E’ costituita da due battenti formati da lastre di bronzo piene con montanti di 3,4 cm di spessore e da pannelli spessi 7 mm; è alta 2,42 metri e larga in basso 1,15 metri mentre in alto è larga 1,10 metri. I chiavistelli indicano una riutilizzazione di epoca medievale probabilmente durante i lavori di Innocenzo III (1198-1216) (Foto 15,16).

15-S. Giovanni in Laterano, Porta (recto) della Cappella di San Lorenzo detta Sancta Sanctorum. 16-S. Giovanni in Laterano, Porta (verso) della Cappella di San Lorenzo detta Sancta Sanctorum.

Un’ulteriore porta romana tardo antica è quella dell’oratorio di San Giovanni Battista nel Battistero Lateranense, costruito nei primi anni del 300 d.C. da Costantino I (Foto 17). Dopo il saccheggio dei Visigoti di Alarico del 410 e poi dei Vandali di Genserico del 455, papa Ilaro donò all’ oratorio tra il 461 e il 468 molti arredi; questa è l’ unica delle porte rimaste e risale quindi a tali date ed è tuttora inserita nell’incorniciatura marmorea del tempo di papa Ilario; le due ante di bronzo massiccio misurano 255 x 84 centimetri ciascuna e sono spartire in specchiature rettangolari con profili modanati, prive delle decorazioni applicate a freddo presenti in origine sulle cornici come le borchie, di cui restano chiare tracce.

17-Battistero Lateranense

Le due specchiature superiori presentano un partito a squame (in uso a Roma fin dal I secolo) con archetti rilevati, all’ interno dei quali è presente una piccola croce d’ argento ad agemina. Una scritta in agemina dedicatoria al papa Ilario è presente sullo specchio liscio di entrambe le ante. (Foto 18,19,20,21,22,23,24,25)

18-Ingresso al Battistero Lateranense oratorio San Giovanni Battista 19-Battistero Lateranense oratorio San Giovanni Battista, porta bronzea di papa Ilaro, 461-468, parte posteriore 20-Battistero Lateranense oratorio San Giovanni Battista, porta bronzea di papa Ilaro, 461-468, parte anteriore
21-Battistero Lateranense oratorio San Giovanni Battista, porta bronzea di papa Ilaro, 461-468, anta sinistra, speccchio superiore 22-Battistero Lateranense oratorio San Giovanni Battista, porta bronzea di papa Ilaro, 461-468, anta sinistra, specchio inferiore
23-Battistero Lateranense oratorio San Giovanni Battista, porta bronzea di papa Ilaro, 461-468, anta sinistra, specchio inferiore, dettaglio 24-Battistero Lateranense oratorio San Giovanni Battista, porta bronzea di papa Ilaro, 461-468, speccchio superiore, dettaglio

25-Battistero Lateranense oratorio San Giovanni Battista, ricostruzione di dettaglio della porta bronzea di papa Ilaro, 461-468

Se la cornice marmorea d’ ingresso all’ oratorio di San Giovanni Evangelista del Battistero Lateranense del tempo di papa Ilaro, uguale a quella dell’ oratorio di San Giovanni Battista, è rimasta originale, la porta bronzea del 461-468 che ospitava è andata persa. Al suo posto c’ è la medievale porta in bronzo datata 1195 voluta da papa Celestino III e fatta eseguire dal cardinale Cencio Savelli futuro papa Onorio III.
I suoi autori hanno lasciato la loro firma all’ interno degli archi incisi in basso a sinistra dell’ anta sinistra: Pietro e Uberto da Piacenza, artefici anche della porta simile, eseguita nel 1196, posta oggi nel chiostro della Basilica Lateranense in corrispondenza del passaggio alla sacrestia. Sullo specchio superiore dell’ anta sinistra di quest’ ultima porta appare la scritta con la data e il nome del papa Celestino III. (Foto 26,27,28,29,30,31,32)

26-Ingresso al Battistero Lateranense oratorio San Giovanni Evangelista 27-Battistero Lateranense oratorio San Giovanni Battista, porta bronzea dell’ oratorio di S. Giovanni Evangelista, 1195 28-Battistero Lateranense oratorio San Giovanni Battista, porta bronzea dell’ oratorio di S. Giovanni Evangelista, 1195, dettaglio del’ anta sinistra
29-Battistero Lateranense oratorio San Giovanni Battista, parte posteriore della porta bronzea dell’ oratorio di S. Giovanni Evangelista 30-Battistero Lateranense oratorio San Giovanni Battista, porta bronzea del passaggio alla sacrestia, 1195

31-Battistero Lateranense oratorio San Giovanni Battista, porta bronzea del passaggio alla sacrestia, specchiatura superiore dell’anta sinistra

32-Battistero Lateranense oratorio San Giovanni Battista, parte posteriore della porta bronzea del passaggio alla sacrestia


Il Cesello

Parte 2

I martelli da cesello sono diversi dai martelli comuni, sono di forma diversa (Foto 1), di diverso peso (generalmente intorno ai 100 grammi, manico incluso) a testa piatta e larga (Foto 2) che viene consumata per il continuo battere sul ferro (Foto 3), e di speciale equilibratura tale da affaticare il meno possibile la mano del cesellatore che deve battere continuamente sul ferro da cesello per intere giornate di lavoro (Foto 4).

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Foto 4

Il ferro viene tenuto tra il pollice, indice e medio, mentre l’anulare poggia con forza sulla superficie da cesellare (Foto 5,6).
Per la cesellatura, le sculture di grandi dimensioni vengono fissate su sostegni di legno; le sculture medio piccole invece vengono fermate dalle ganasce delle speciali “morse da cesello” (le morse nelle immagini risalgono agli anni ’30 del Novecento (Foto 7,8)) che hanno la caratteristica di scaricare a terra i continui colpi creati dal battere del ferro nella cesellatura; le morse hanno delle ganasce di piombo che permettono di stringere e bloccare la scultura in bronzo senza causare graffi o scalfitture.

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Queste morse sono applicate a robusti bachi da lavoro (Foto 9,10,11) rimasti uguali dai primi del ‘900 ad oggi.

Uno dei problemi che cesellare il bronzo comporta è il rumore: un continuo “den den” ad alto volume che dura per molte ore, con pochi intervalli di pace (come si può sentire nei due video di seguito in cui è stato volutamente diminuito il volume del rumore), e che obbliga i cesellatori all’ uso di cuffie antirumore.
Nella Fonderia Ferdinando Marinelli di Rifredi, aperta nel 1919 tra le abitazioni, hanno continuato a cesellare in contemporanea tutti i giorni dai 3 ai 5 cesellatori. E proprio questo rumore è stato uno dei motivi che ci ha spinto a creare una nuova fonderia nella campagna di Barberino Val d’ Elsa in cui ci siamo spostati nel 2000.

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Nella formella della Porta del Paradiso in fase di cesello (Foto 12) le figure in alto sono state cesellate, quelle al centro sono a metà cesellatura, quelle in basso sono appena iniziate. Il cesello si esegue anche su fusioni di grandi dimensioni, come sulla testa di uno dei personaggi del ratto delle Sabine del Giambologna (Foto 13) e anche su quella del David di Michelangelo (Foto 14).

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Il bordo inferiore del gonnellino del David del Verrocchio presenta un nastro con scrittura pseudo-cufica (molto di moda nel Rinascimento) eseguito a cesello (Foto 15,16). Le sottili masse dei capelli nella testa della Diana Cacciatrice del Museo Vaticano dimostrano il cesello eseguito con uno “spianatoio” (Foto 17,18).

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Le antiche porte di bronzo in Italia

Parte I

Porte di metallo, o meglio “foderate” di metallo, sono note fin dai tempi più antichi; Omero nell’ Odissea ci descrive quelle del palazzo di Alcinoo:

“Il palazzo di Alcinoo emanava una grande luce come se fosse un sole o una luna. Dalla soglia, lungo tutte le pareti, il muro era foderato di bronzo con, in alto, fregi smaltati di colore celeste. Le porte erano d’oro e la soglia aveva stipiti di argento, l’architrave era d’argento e le maniglie d’oro”.

Nella tomba di Rekmire a Tebe (1400 a.C. ca.) è dipinta un’ officina di bronzisti che colano bronzo fuso per fabbricare la porta del tempio di Amon, e in bronzo erano anche le porta di Babilonia, la porta del tempio di Zeus ad Olimpia, quella di bronzo dell’Arsenale del Pireo.
Gli Assiri nell’ 850 a.C. circa avevano decorato la porta lignea del palazzo del re Salmanassar III a Imgur-Enlil rivestendola con fasce di bronzo scolpite fissate con chiodi al legno (Foto 1,2,3)

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Le porte degli edifici pubblici in età romana erano prevalentemente di bronzo (Vitruvio ne definisce la tipologia (De architectura, lib. IV, cap. IV). Tra quelle che a Roma sono rimaste le più note sono la porta del Pantheon del II secolo d.C., quella del Tempio di Romolo al Foro Romano, la porta della Curia Iulia d’età di Domiziano che il Borromini rimpiegava per S. Giovanni in Laterano e che venne ingrandita e decorata con nuove borchie e tralci.

In epoca tardo antica ci sono, tutte di riuso, la porta di Papa Ilaro (460 d.C.) nell’oratorio di San Giovanni Battista nel Battistero Lateranense, quella di San Giovanni Evangelista nello stesso Battistero, quella nel chiostro di San Giovanni in Laterano e quella nella cappella della Scala Santa.

La porta del Pantheon, del 120 d.C. ca., è la più grande, alta 7,53 metri e larga 4,45 circa; è una porta di legno rivestita da lamiere di bronzo spesse 4 cm, fuse probabilmente con getto in forma orizzontale aperta che permettesse fusioni lastre di grandi dimensioni e di grande spessore (Foto 4,5,6,7,8,9)

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Nel 1520 Papa Medici Leone X promuoveva il restauro del Pantheon e della sua porta, nel 1555 Papa Pio IV “fece nettare la porta di metallo per la vecchiezza arrugginita” e sostituire 182 borchie di bronzo; Pompeo Ugonio, Canonico della Basilica Vaticana, agli inizi del ‘600 ci dice che queste porte erano “indorate con i cancelli di sopra simili”; fortunatamente nella spoliazione operata da Papa Urbano VIII nel 1625 dei rivestimenti di bronzo dorato delle travi del pronao per far fondere 80 cannoni per Castel S. Angelo e le colonne tortili per l’altare di San Pietro, la porta non fu rifusa (Foto 10,11,12)

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La porta del Pantheon viene rappresentato in pittura dalla metà del ‘400, come nel cassone di Apollonio di Giovanni con le storie di Didone ed Enea dell’ Art Gallery della Yale University datata 1450 ca. dove sono rappresentate le due ante, a tre specchi e in giallo, probabilmente dorate, ma che riempiono tutto il vano dell’ apertura senza la parte superiore grigliata. Intorno al 1500 Simone del Pollaiolo la disegna ad un’ unica anta, ma con la griglia superiore; finalmente Raffaello la disegna nel 1508 così com’ è ancora oggi, tranne che per le borchie e i decori. (Foto 13,14,15,16,17)

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Il Cesello

Parte I

Nella fusione a cera persa in bronzo la cesellatura è un’importante fase di lavorazione della superficie delle sculture; la si esegue con dei particolari utensili chiamati “ferri da cesello”.
I ferri da cesello sono dei piccoli scalpelli (detti solo “ceselli” o “ferri”) in acciaio a sezione quadrata o tonda, con la testa (la parte in contatto con il metallo) di forme diverse, mentre il capo opposto è destinato a ricevere i colpi del martello. (Foto 1,2,3)

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Questo perché i ferri da cesello vengono normalmente utilizzati per definire e rifinire con estrema minuzia i particolari delle fusioni in bronzo. Possono mettere in risalto parti che in fusione sono riuscite meno evidenti del voluto (Foto 4,5),

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o anche creare ex novo dettagli sul bronzo che non erano stati modellati sulla cera prima della fusione (Foto 6,7); in alcuni casi per schiacciare e ribattere (col ferro chiamato “spianatoio”) zone lisce del bronzo che presentano lievi imperfezioni o piccoli forellini che verranno così tappati e spariranno.

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Questi tocchi di lavorazione a freddo migliorano la qualità scultorea complessiva, evidenziando il gioco di luci e ombre, creando maggiore profondità in alcune cavità e allo stesso tempo rendendo più netti i bordi.
I principali ferri sono il profilatore (Foto 8,9), l’unghietta (Foto 10) e lo spianatoio (Foto 11).

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Foto 10 Foto 11

Possono essere di diversa grandezza e misura: l’unghietta è usata per tracciare linee curve, il profilatore per le linee diritte, gli spianatoi per spianare la superficie intorno al disegno oltre che schiacciare zone porose del bronzo. Ci sono anche dei ferri che hanno disegni vari sulla testa per poterli imprimere sulla superfice della scultura (Foto 12), altri con puntini o stellette (Foto 13) come quelle impresse sulla parte alta del guerriero di spalle (Foto 14).

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Tutti i ferri sono sempre lucidi e sfrangiati sul capo per il continuo battere su di esso del martello, che li schiaccia creandovi dei riccioli di metallo (Foto 15).

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Monumento alla Vittoria

Nel 1925 fu indetto un concorso nazionale per l’esecuzione a Forlì di un “Monumento alla Vittoria” da inaugurarsi il 30 ottobre del 1932, decimo anniversario della “rivoluzione fascista”.

Il concorso venne vinto da un personaggio gradito al regime, l’architetto e ingegnere Cesare Bazzani il quale volle creare un monumento che rispetto agli altri avesse la particolarità di poter avere due lati principali su cui accogliere cerimonie, uno rivolto verso il giardino pubblico e l’altro verso la stazione; questa caratteristica venne sottolineata anche da Mussolini nel discorso d’inaugurazione che pronunciò dal balcone del palazzo del Governo di piazza Saffi dicendo del monumento “…da una parte la pietà per i caduti, dall’ altra l’ esaltazione fiera della vittoria…”, per cui l’intera opera fu chiamata anche Monumento ai Caduti.

Architetto Cesare Bazzani

Il Bazzani progettò una importante struttura architettonica composita completamente rivestita in marmo di Trani, alto in tutto 32 metri: un basamento rialzato con i lati minori tondi, su cui insistono tre elementi: al centro una colonna dorica alta 22 metri la cui base contiene una piccola cappella in cui si entra da una porta di ferro: dal soffitto della cappella si accede alla scala a chiocciola contenuta all’ interno della colonna, che arriva fino alla sommità di questa; la scala prende luce da due piccole aperture presenti sulla colonna stessa. Ai lati due parallelepipedi decorati da due bassorilievi ciascuno, eseguiti da Bernardino Boifava, che raffigurano i momenti fondamentali della vita degli eroi, cioè l’attacco, la difesa, il sacrificio e il trionfo, e che sui lati che guardano verso il piazzale, una fontana con un moderno che rappresentano il sacrificio della Vittoria.

Monumento alla Vittoria

Monumento alla Vittoria, parte basale

Monumento alla Vittoria Veduta dei primi anni 30
Preparazione dell’inaugurazione di Mussolini, Scultura in bassorilievo su uno dei due parallelepipedi Scultura in bassorilievo su uno dei due parallelepipedi
Una delle due fontane laterali Mascherone di una fontana

In alto il capitello della colonna ospita una base rotonda decorata su cui è collocato un importante gruppo scultoreo bronzeo di tre figure femminili alate che rappresentano il cielo, la terra e il mare.
Il modello venne eseguito dallo scultore Bernardo Morescalchi che affidò la fusione alla Fonderia Artistica Ferdinando Marinelli di Firenze. Il Marescalchi aveva lavorato in precedenza con la Fonderia Artistica Marinelli per la fusione di opere di grandi dimensioni, come i Cavalli di Forlì.

Le due piccole finestre lucifere per la scala interna Finestra lucifera sulla sommità della colonna Bronzo del Monumento alla Vittoria
Bronzo del Monumento alla Vittoria Bronzo del Monumento alla Vittoria Bronzo del Monumento alla Vittoria, particolare
Monumento alla Vittoria, particolare Firma della Fonderia Artistica Marinelli di Firenze sulla base dei bronzi

Il Monumento alla Vittoria nella Fonderia Marinelli di Firernze in attesa di venir imballato

Uno dei due Cavalli modellati da Morescalchi e fusi dalla Fonderia Ferdinando Marinelli di Firenze Uno dei due Cavalli modellati da Morescalchi e fusi dalla Fonderia Ferdinando Marinelli di Firenze

Nell’ottobre del 1932 Mussolini inaugurò ufficialmente il monumento con una grande cerimonia e col discorso dal balcone del Palazzo del Governo.
Successivamente, nel giugno del 1938 fu il Re Vittorio Emanuele III che visitando Forlì si soffermo ai piedi del monumento deponendo una corona.

Visita di Mussolini per l’inaugurazione del monumento Mussolini visita i cantieri del Monumento alla Vittoria

Visita di Mussolini per l’inaugurazione del monumento

Discorso di Mussolini dalla terrazza del Palazzo del Governo a Forlì

Ricercando negli archivi della Fonderia Artistica Ferdinando Marinelli è apparsa una lettera, datata 28 aprile 1923, successiva all’ inaugurazione del Monumento che la Fonderia scriveva al Podestà di Forlì, in cui veniva richiesto il pagamento per “le lettere per il monumento la Vittoria”, di cui era ancora creditrice. Si tratta delle lettere della scritta applicata in alto sotto il capitello della base dei bronzi.

Lettera della Fonderia Ferdinando Marinelli

Nell’ anno 2024 il Comune di Forlì ha previsto un sopralluogo per monitorarne la “salute”, seguìto dallo Studio Tecnico Nerodichina di Forlì con l’architetto Giancarlo Gatta. Le Vittorie alate hanno presentato spacchi e rotture; ma la cosa più particolare sono stati una serie di fori che in un primo momento hanno lasciato nel dubbio gli studiosi e solo dopo un colloquio tra l’architetto Gatta e Ferdinando Marinelli Jr. gestore della Fonderia Artistica Ferdinando Marinelli si è capito essere dovuti a proiettili dell’ ultima guerra.

La scritta di lettere bronzee sotto il capitello della colonna, dettaglio

La scritta di lettere bronzee sotto il capitello della colonna

Sopralluogo sul Monumento 2024

Sopralluogo sul Monumento 2024

Fori di proiettili

Fori di proiettili

Fori di proiettili

Fori di proiettili


Michelangelo e i 12 apostoli

Mentre Michelangelo era alle prese con la colossale scultura del David, il 24 aprile del 1503 l’ Opera del Duomo gli commissionò un’ altro importante lavoro: l’esecuzione di 12 Apostoli in marmo per ornare le nicchie dei pilastri sotto la cupola del Duomo in grandezza “eroica”, cioè alti circa due metri e venti. Michelangelo avrebbe dovuto consegnarne uno l’anno.
L’arrivo dei blocchi di marmo dalle cave di Carrara avvenne tra il 1504 e il 1505, e il primo ad essere iniziato fu il San Matteo. Riuscì a sbozzarne solo una parte e nel 1505 ripartì per Roma, rescindendo il 18 dicembre 1505 il contratto di allogagione. Potrebbe comunque aver ripreso provvisoriamente in mano il lavoro nel 1506, al suo ritorno a Firenze dopo il litigio col papa Giulio II e la sua fuga da Roma.

Michelangelo, San Matteo, Galleria dell’ Accademia

Michelangelo, San Matteo, Galleria dell’ Accademia, particolari

Raffaello, venuto a Firenze il 1504 e rimastovi fino al 1508 fu fortemente colpito dal San Matteo di Michelangelo, tanto da farne un disegno di studio.

Raffaello, Studio del San Matteo di Michelangelo, British Museum, Londra

Il santo è un personaggio potente, vigoroso, col volto accigliato, e sembra uscire dal blocco non ancora scolpito portando avanti una gamba nuda con una torsione verso sinistra; ha il petto attraversato da una fascia (che avrà visto nello studiare il Sacrificio d’ Isacco di Donatello del 1421) così come la Madonna nella Pietà Vaticana e il Fanciullo Arciere dell’ Ambasciata Francese di New York.

Donatello, Sacrifico d’Isacco, 1421, Museo Opera del Duomo

Il Vasari nelle sue Vite. Scrive:

…Così abbozzata mostra la sua perfezione, ed insegna agli scultori in che maniera si cavano le figure de’ marmi, che senza venghino storpiate, per poter sempre guadagnare col giudizio, levando del marmo, ed avervi da potersi ritrarre e mutare qualcosa, come accade , se bisognassi…

Il San Matteo è conservato al Museo dell’Accademia di Firenze.

La tecnica del "non finito"

Michelangelo si era impossessato della tecnica scultorea del “non finito” fin dalla sua a prima opera, la Madonna della Scala, eseguita nel 1491, a 16 anni.

Madonna della Scala

Madonna della Scala, dettaglio

Questa tecnica presuppone che l’ opera in cui viene applicata sia stata terminata, perché Michelangelo ha lasciato alcune sue opere incompiute, e in questi casi ovviamente non siamo difronte alla “tecnica a non finito”.
Ma anche dove tale tecnica è stata volutamente eseguita, si possono distinguere differenti modalità. Nello stiacciato donatelliano della Madonna della Scala i due putti in alto sono volutamente appena accennati, creando nello spettatore alcuni sottili stati d’ animo: l’ attenzione viene indirizzata sulle parti definite della scultura e il senso impressionistico rende sconosciuto e fascinoso il loro agire, lascia allo spettorare la possibilità di vedere qualcosa che non è completamente formato, di “proiettare” cioè su di essi quello che la sua immaginazione gli detta. Queste caratteristiche fanno nascere il senso di mistero che alla fine si riverbera su tutta l’ opera.
Tale tecnica verrà fatta propria dai pittori impressionisti dell’ ‘800, e ci permette di capire quanto la scultura di Michelangelo, nel ‘500, fosse “moderna” e innovativa.
Michelangelo ha usato questa stessa tecnica ma in maniera più pesante e profonda in altri suoi capolavori, dove crea un senso di sospensione delle figure in attesa di nascere, ancora in parte imprigionate nella materia; l’ esempio più chiaro lo si ha nei quattro Prigioni,

Michelangelo, Prigione Barbuto, Galleria dell’Accademia

Michelangelo, Prigione “Atlante”, Galleria dell’Accademia

Michelangelo, Prigione che si desta, Galleria dell’Accademia

Michelangelo, Prigione giovane, Galleria dell’Accademia

che se è vero che non furono terminati, è altrettanto vero che Michelangelo ha eseguito lo sbozzo dei loro blocchi di marmo in modo particolare e non ortodosso, probabilmente per fermare meravigliosamente il momento della liberazione dell’ anima delle sculture dalla materia; si entra quindi con i prigioni nel dubbio: non terminati ma anche in parte eseguiti con molto “non finito”?
Dubbio in quanto i due Schiavi eseguiti nel 1513-1515, prima dei Prigioni scolpiti nel 1525-1530, furono considerati terminati e finiti; ma nel volto dello Schiavo Ribelle la tecnica del “non finito” appare in modo evidentissimo nel volto.

Michelangelo, Schiavo Ribelle, Museo del Louvre

Questo dubbio nasce con forza anche nella Pietà Bandini, gruppo che sappiamo mai del tutto terminato da Michelangelo. Ma i diversi livelli di “non finito” del corpo e del volto di Maria (in contrasto con la politezza del corpo di Cristo ma non del suo volto né della sua mano sinistra), del busto di Nicodemo non ci permettono di avere una risposta certa.

Pietà Bandini

Pietà Bandini, dettaglio

Pietà Bandini, dettaglio

Anche l’uso della sagrina per finire le superfici di alcune sue opere, come nei corpi del Tondo Pitti ad esempio, ci riportano ad un uso sottile del “non finito” voluto e ricercato da Michelangelo in tutte le sue possibilità.

Tondo Pitti

Tondo Pitti, dettaglio


Michelangelo e le sue prime sculture

Parte IV

La seconda scultura che Michelangelo eseguì per l’Arca di San Domenico a Bologna è il SAN PROCOLO, alto poco meno di 60 centimetri.
Lo rappresentò per quello che era, cioè un forte soldato romano cristiano martirizzato a Bologna dai Romani al tempo di Diocleziano: la tunica corta dei soldati chiusa in vita dalla cintura, il mantello, alti calzari e molto probabilmente una lancia nella mano destra che è andata persa.

Michelangelo, San Procolo, Arca di San Domenico, Bologna

Anche in quest’opera è chiaro lo stile michelangiolesco, figura solida, volto accigliato, atteggiamento teso e sicuro evidenziato dal modo di tenere il mantello sulla spalla sinistra, non più delicata e femminea come le figure del Rinascimento.

Nel 1572 fra Ludovico da Prelormo custode dell’ Arca scrive:

“La vigilia del padre San Domenico il povero sventurato fra’ Pelegrino converso roppe la statua di San Procolo, la gettò a terra in più di cinquanta pezzi. Io né ho mai avuto in ottanta anni il più intenso dolore al cuore di questo. Mi credeva certo di morire; vennero i Padri tutti a confortarmi, e molti maestri periti ne l’arte, e così la portarono via e fu aconzia [aggiustata] alla foggia al presente si vede.”

E infatti la figura presenta una serie di rotture più o meno restaurate; chiara quella della testa riattaccata grossolanamente.

Michelangelo, San Procolo, Arca di San Domenico, Bologna, particolare

La terza delle sculture che Michelangelo eseguì per l’Arca di San Domenico è quella di SAN PETRONIO, vescovo e patrono di Bologna, posto al centro dell’Arca tra gli altri due santi precedentemente eseguiti da Niccolò dell’Arca

Arca di San Domenico, Bologna

Il Santo guarda davanti a se, porta la tiara e un lungo mantello dalla caotiche ma studiatissime pieghe chiuso da un fermaglio davanti al petto, più complesse dei mantelli degli altri due Santi.
Il volto è riconoscibilissimo come opera di Michelangelo.

Michelangelo, San Petronio, Arca di San Domenico, Bologna

Michelangelo, San Petronio, Arca di San Domenico, Bologna, particolare

La caratteristica particolare è la città di Bologna che tiene in alto tra le mani, sostenendone il peso a fatica sbilanciando l’anca e tendendo i tendini dei polsi; Michelangelo si è ispirato alla statua dello stesso Santo eseguita da Jacopo della Quercia e posta sulla porta centrale della basilica di San Petronio di Bologna, ma in controparte.

Michelangelo, San Procolo, Fusione in bronzo statuario postuma da calco eseguito sull’originale dalla Fonderia Artistica Ferdinando Marinelli di Firenze

Michelangelo, San Petronio, Fusione in bronzo statuario postuma da calco eseguito sull’originale dalla Fonderia Artistica Ferdinando Marinelli di Firenze


Michelangelo a Firenze, i Prigioni

Nel novembre del 1518 Michelangelo, a Firenze per la facciata della Basilica di San Lorenzo, acquistava un pezzo di terreno in via Mozza (oggi l’ultima parte dell’attuale via S. Zanobi che si apre su via delle Ruote) e nel 1519 vi faceva edificare un suo studio di scultura di circa 200 mq, con un giardinette su retro.
Prima di trasferirsi definitivamente a Roma nel 1534, aveva lavorato alle Tombe dei Medici per la Sacrestia Nuova della chiesa di S. Lorenzo.

Michelangelo, modello ligneo per la facciata di San Lorenzo, 1518, Casa Buonarroti

Il 9 aprile del 1519 gli fu portato con un carro trainato da 5 bovi un blocco di marmo che aveva acquistato a Carrara, nella cava dei Fantiscritti, e successivamente molti altri per la Sacrestia Nuova e per l’enorme progetto della Tomba per il papa Giulio II.

Schema del primo progetto della tomba di Giulio II. Alla base erano previsti i Prigioni

Giacomo Rocchetti, disegno della tomba di Giulio II prevista nel secondo contratto. del 1513, Prigioni sono ancora presenti, Kupferstichkabinett, Berlino

Michelangelo, parte inferiore del disegno della tomba di Giulio II prevista nel secondo contratto del 1513, i Prigioni sono ancora presenti, Uffizi

Nel 1534 si trasferiva definitivamente a Roma, lasciano nel suo studio di Firenze modelli in cera e creta, marmi e delle sculture, che andarono rubati durante l’ assedio di Firenze del 1529. Alcuni furono poi recuperati o erano rimasti, in particolare i quattro Prigioni (o Schiavi) non terminati, anch’ essi pensati per la tomba di Giulio II.
Questa infatti, nel primo faraonico progetto, avrebbe dovuto avere in basso dai 16 ai 20 Prigioni grandi una volta e mezzo il naturale, che nascevano e fuoriuscivano dal blocco di marmo. Come sappiamo il primo progetto non andò in porto in quanto nel 1513 la tomba fu ridisegnata in forme minori dove i Prigioni sarebbero dovuti diventare 12. Nel 1516 un terzo progetto rimpiccoliva ancora di più la tomba e i Prigioni dovevano diventare 8. Nei successivi altri 2 progetti sempre più ridotti del 1526 e 1532 darebbero diventati 4. Nel progetto definitivo del 1542 (il sesto) i Prigioni non erano più previsti.

Nel 1550 Eleonora di Toledo, moglie di Cosimo I, acquistò il Palazzo Pitti per trasferirvi la famiglia e tutta la corte, compreso il terreno posto sulla facciata posteriore del Palazzo, che fece trasformare nello splendido Giardino di Boboli.

Giusto Utens, Lunetta con Palazzo Pitti e Giardino di Boboli, 1599, Villa La Petraia

I quattro Prigioni Fiorentini previsti nel progetto della tomba di Giulio II e poi non più necessari erano rimasti nello studio di via Mozza e furono donati nel 1564 da Leonardo Buonarroti nipote di Michelangelo al Granduca Cosimo I.
Il duca Francesco I, figlio di Cosimo e suo successore, fece costruire tra il 1583 e il 1593 dal Buontalenti una grotta artificiale di più vani rivestita con finte rocce (il Vasari ne progettò l’ ingresso), in cui fece incastonare i 4 Prigioni come se stessero lottando per nascere e uscire dalle rocce. E li sono rimasti fino ai primi del ‘900 quando furono portati nella Galleria dell’ Accademia.
Successivamente sono stati riinseriti nelle posizioni originarie delle repliche in gesso.

Giardino di Boboli, ingresso vasariano alla grotta del Buontalenti

Lo studio anatomico dello Schiavo Barbuto è sorprendente: il torso muscoloso in torsione, il braccio destro sollevato nell’ eccezionale posa di reggersi e stringersi la testa piegata. Nonostante sia quello più finito dei quattro, le potenti gambe divaricate tenute da una fascia, ancora unite alla roccia che le genera così come la mano sinistra ancora non formata, danno un eccezionale senso di risveglio, di potente forza, di divinità Pagana in procinto di apparire nell’ Olimpo degli dei, caratteristiche rese vibranti anche dalle superfici che mostrano i segni degli scalpelli con cui Michelangelo le stava facendo nascere.

Michelangelo, Prigione Barbuto, Galleria dell’Accademia

Lo Schiavo Atlante, non finito, sembra avere la testa dentro il blocco di marmo che regge con sforzo sia delle gambe divaricate e piegate che del braccio sinistro le cui muscolature sono in tensione. La figura cerca di liberarsi dalla pietra da cui nasce ed è lo stato di non finito che amplifica ed evidenzia l’ energia che lo Schiavo sta per scatenare.

Michelangelo, Prigione “Atlante”, Galleria dell’Accademia

Lo Schiavo che si desta: una potente figura maschile si gira nel marmo che ancora lo attanaglia. La faccia è sbozzata nei lineamenti. La gamba destra e il braccio sinistro, benchè ancora accennati, a differenza del torso che è terminato, formano una curva ad “S” che amplificano la sensazione di risveglio non ancora libero dalla roccia in cui è bloccato. Anche in questo Schiavo, come del resto negli altri tre, gli arti e le anatomie sono massicce e potenti.

Michelangelo, Prigione che si desta, Galleria dell’Accademia

Lo Schiavo Giovane è poco più che sbozzato, l’unica parte a cui Michelangelo ha dato una prima lisciatura è il ginocchio: la parte del corpo che si sporge e che per prima è uscita dal marmo. Il gigante sembra svegliarsi mentre fuoriesce dalla roccia che vuole partorirlo. Anche la posa del braccio piegato che copre parte del volto e il ginocchio proteso parlano di una nascita. Ed infatti è il più giovane dei quattro. Le uniche masse muscolari sono quelle del torso, appena accennate, ma anche così parlano di divinità di grande forza e potenza, potenza che lo schiavo prende dalla terra e dalla roccia da cui si sta staccando.

Michelangelo, Prigione Giovane, Galleria dell’Accademia

Michelangelo, Prigione Giovane, Fusione in bronzo statuario postuma da calco eseguito sull’originale dalla Fonderia Artistica Ferdinando Marinelli di Firenze

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Michelangelo, Prigione Barbuto, Fusione in bronzo statuario postuma da calco eseguito sull’originale dalla Fonderia Artistica Ferdinando Marinelli di Firenze


Michelangelo, Il Bacco

Il Vasari nelle Vite, riferendosi a Michelangelo, scrive di:

…un Dio d’amore, d’età di sei anni in sette, à iacere in guisa d’huom che dorma…

alludendo alla statuetta di marmo che Michelangelo aveva scolpito nel 1496 al suo ritorno a Firenze, quando venne nuovamente ospitato da Lorenzo dei Medici il Popolano, cugino di Lorenzo il Magnifico.

Lorenzo dei Medici il Popolano, Botticelli, 1479, Palazzo Pitti.

Ne abbiamo notizia anche grazie ad una lettera di Antonio Maria Pico della Mirandola del 1496 a Isabella d’Este, dove scrive:

… Un Cupido che giace e dorme posato su una mano: è integro ed è lungo circa 4 spanne, ed è bellissimo; c’è chi lo ritiene antico e chi moderno; comunque sia, è ritenuto ed è perfettissimo.

La statua era lunga “quattro spanne”, cioè circa 80 cm, ma è andata persa, e la proposta identificazione con il Cupido Dormiente conservato al Museo del palazzo San Sebastiano a Mantova è molto discussa e improbabile.

Cupido dormiente, Museo della città di Palazzo San Sebastiano

Gli era stata commissionata dal Medici. Era il 1496, anno in cui il Savonarola e i suoi seguaci censuravano ogni opera d’ arte considerata licenziosa; fu così che il Putto venne portato a Roma e sotterrato in una vigna per renderlo “antico” e venderlo come reperto romano. Probabilmente Michelangelo ne era all’ oscuro.
Il trucco riuscì, tanto che venne acquistato da Raffaele Riario cardinale di San Giorgio, celebre collezionista d’ arte, tramite l’ intermediario Baldassare del Milanese per 200 ducati. Ma il Milanese portò a Michelangelo solamente un acconto di 20 ducati.

Cardinale Raffaele Riario (al centro), Raffaello, 1512, Messa di Bolsena, Stanze Vaticane

Il Riario si si rese conto di essere stato truffato, ma l’opera era cosi perfetta che invece di rivolere indietro il denaro volle conoscere l’artista che l’aveva scolpito. Mandò quindi a Firenze il banchiere suo amico Jacopo Galli perché portasse a Roma l’autore del Putto. Il Galli convinse Michelangelo, ignaro del raggiro, che arrivato a Roma al cospetto del cardinale con una lettera di presentazione di Lorenzo dei Medici il Popolano, avendo avuto a Firenze solo 20 scudi, rivoleva indietro la sua scultura.
Il Riario si arrabbiò furiosamente con Michelangelo dicendo che l’aveva pagata ed era sua.
Fu con questa vicenda che Michelangelo vide aprirsi a Roma un nuovo mondo di lavoro in gran parte tramite il Galli, banchiere molto importante e influente, che lo ospitò nel suo palazzo.

Il Bacco

E infatti qualche giorno le cose cominciarono ad andare meglio: il 4 luglio del 1496 il cardinale Riario gli chiese di scolpire per lui un opera pagana, il BACCO. Lo eseguì in un anno, consegnandolo nel 1497.
La divinità mitologica è rappresentata in modo naturalistico con l’incedere insicuro di un giovane dio ebbro di vino, la posa a contrapposto è leggermente sbilanciata, la testa piegata e gli occhi stravolti dal liquore, il corpo è morbido e leggermente femmineo evidenziata anche dalla pancia leggermente gonfia a causa anche del bere. Tiene in mano la coppa del vino, e tra i riccioli pendono due grappoli d’uva. Con l’altra mano regge la pelle di leopardo, animale caro al dio.

Nascosto dietro di lui un giovane satiro appoggiato alla gamba sinistra in posa seducente mangia l’uva seduto su un tronco d’albero reciso. Il bellissimo satiro ha anche una funzione di sostegno e di rinforzo dell’opera il cui peso scarica sulla gamba su cui il satiro poggia.

Michelangelo, Bacco, Museo del Bargello, particolare

Michelangelo, Bacco, Museo del Bargello, particolare

Il cardinale Riario rifiutò l’opera, tropo poco simile alle raffigurazioni romane di Dioniso e quindi troppo lasciva per un membro della Chiesa.
la ritirò con molto piacere il banchiere Galli che la posizionò al centro del suo giardino. Il pittore olandese Maarten Van Heemserck vide l’opera nel giardino del Riario nel 1532 e ne fece il disegno. La coppa e la mano destra appaiono mancanti e anche il pene sembra sia stato rotto: la mano e la coppa che si vedono oggi sono un’integrazione antica.

Disegno di Maarten van Heemskerck, 1535, Il Bacco nella collezione di opere antiche del Riario

Il Bacco è conservato ed esposto al Museo del Bargello.

Il Bacco di Michelangelo esposto al Museo del Bargello

Fusione in bronzo statuario postuma da calco eseguito sull’originale dalla Fonderia Artistica Ferdinando Marinelli di Firenze


Michelangelo e le sue prime sculture

Parte III

Lorenzo il Magnifico aveva ospitato per 4 anni Michelangelo nel suo palazzo di via Larga, avendolo quotidianamente a tavola con sé e con i vari ospiti, tra cui gli umanisti dell’Accademia Platonica.
Nel 1492, alla morte di Lorenzo, Michelangelo fu esiliato dal palazzo Medici. Fu costretto a ritornare a casa del padre.

Palazzo Medici dopo l’allargamento settecentesco dei Riccardi

Il Vasari nelle sue “Vite dei più eccellenti pittori, scultori e architettori” del 1568:

…Era da poco morto Lorenzo il Magnifico quando il giovane Michelagnolo non ancora ventenne si accinse a scolpire un Crocifisso di legno, che si posa sopra il mezzo tondo dell’ altare maggiore, a compiacenza del priore il quale gli diede comodità di stanze…

Fu in questo periodo che Michelangelo si dedicò allo studio dell’anatomia umana tramite la dissezione dei cadaveri. Grazie all’ intercessione di Piero dei Medici il Fatuo, succeduto a Lorenzo il Magnifico, ottenne dal priore del convento di Santo Spirito, Lapo Bicchiellini, il permesso di dissezionare i corpi dei cadaveri maschili che arrivavano dall’ospedale del convento.
Le eseguiva di notte perché non rischiare di essere accusato di negromanzia dall’ inquisizione, eseguendo anche disegni anatomici.

Piero di Lorenzo dei Medici detto il Fatuo, Ghirlandaio, 1494, Miniatura, Biblioteca Naz. di Napoli

Convento di Santo Spirito, Chiostro Grande

Michelangelo, disegno anatomico, Casa Buonarroti

Fu per ringraziamento che al priore del convento Michelangelo scolpì e donò al priore Bicchiellini un crocifisso di legno ora custodito nella Sacrestia Nuova della chiesa di Santo Spirito, un capolavoro di eleganza e dolcezza.

Michelangelo, Cristo ligneo, Sacrestia Nuova, Santo Spirito

Alla fine del ‘400 la situazione politica di Firenze stava pesantemente cambiando, le prediche del Savonarola erano sempre più ascoltate, si respirava la caduta dei Medici voluta da Carlo VIII re di Francia.

Girolamo Savonarola, Fra Bartolommeo, 1497, Museo di San Marco

Michelangelo a Bologna

Michelangelo preferì lasciare la città e, insieme agli amici Granacci e il fiammingo Johannes Cordier, detto il Cordiere, suonatore di lira a palazzo Medici, andò a Venezia, dove rimase per un breve periodo, dirigendosi poi a Bologna. Qui fu accolto da Giovan Francesco Aldrovandi uomo di fiducia del signore di Bologna Giovanni Bentivoglio, e per suo tramite ricevette l’incarico di realizzare tre sculture per la trecentesca Arca di San Domenico eseguita da Nicola Pisano e Niccolò dell’Arca, ancora non completata.

Francesco Granacci

Arca di San Domenico, Nicola Pisano e Niccolò dell’ Arca, sec. XIV, Chiesa di S. Domenico, Bologna

L'Angelo Reggicandelabro

Eseguì l’ ANGELO REGGICANDELABRO mancante nell’angolo destro dell’Arca, in pendant con quello esistente nell’angolo sinistro eseguito da Niccolò dell’Arca.

Michelangelo, Angelo Reggicandelabro, 1495 ca., Arca di San Domenico, Bologna

Niccolò dell’ Arca, Angelo Reggicandelabro, 1470 ca., Arca di San Domenico, Bologna

Entrambi gli angeli sono inginocchiati; Niccolò dell’Arca aveva scolpito un angelo elegante e raffinato, in stile rinascimentale, con caratteristiche quasi femminili.

Niccolò dell’ Arca, Angelo Reggicandelabro, Arca di San Domenico, 1470 ca., Bologna